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Il futurismo è il più importante movimento di avanguardia che l’Italia ha avuto nel Novecento, un movimento che ha provato a cambiare il modo di pensare e di vivere della società.
Gli artisti del futurismo si riuniscono intorno allo scrittore Filippo Tommaso Marinetti; è lui che inventa la parola futurismo, con cui il gruppo dichiara di volersi liberare di tutto ciò che è stato prodotto. Il passato, pensano, danneggia l’uomo e lo rende debole e sentimentale, perciò va rimpiazzato con i simboli del progresso: la velocità delle automobili, la potenza degli aerei, l’energia prodotta dalle fabbriche. Siamo intorno al 1909 e in quegli anni le città si trasformano in metropoli e sorgono centri industriali.
Per colpire l’attenzione dei contemporanei, Marinetti scrive che un’automobile da corsa è più bella della Vittoria di Samotracia, una celebre statua greca che rappresenta una donna alata, simbolo della vittoria: al mito del classicismo si oppone il mito della modernità.
I futuristi amano far parlare di loro attraverso la provocazione: si recano nei caffè, nei teatri, ai concerti e scatenano risse e disordini tra il pubblico con frasi offensive o comportamenti violenti. È il loro modo di scuotere la gente, di manifestare una ribellione che coinvolge tutti gli aspetti della vita e arriva fin dentro le case: il pittore Giacomo Balla si fabbrica da sé vestiti, mobili, gioielli, tappeti con colori vivaci, per liberarsi di ciò che di pesante, scuro e polveroso lo circonda. Con le sue opere egli vuole divertire, per esempio cambiando il nome alle cose: i fiori che dipinge si chiamano i bal-fiori, i pesci i futur-pesci e così via, a indicare una personale visione del mondo. Attratto dal movimento e dal dinamismo, Balla esplora ingannando la nostra capacità di vedere: per esempio, dipinge la figura di una bambina che corre, ripetuta tante volte sulla tela (Bambina che corre sul balcone). Applica in pittura il principio usato nel cinema, secondo cui se guardiamo a una certa velocità una serie di fotogrammi di una persona che cammina non percepiamo le singole immagini, ma l’insieme naturale del movimento.
Mentre Balla ricostruisce l’universo familiare e domestico, un altro futurista dipinge il cambiamento della città in affollata metropoli. Umberto Boccioni racconta nelle sue opere cosa vede dal balcone della sua casa, oppure camminando per le vie di Milano. In La città che sale (1910-11) il movimento dei cavalli, degli operai, dei passanti, il fumo delle industrie in lontananza, tutto diventa un fiume in piena che sale verso l’alto e travolge strade e palazzi. È la forza del lavoro e la frenesia della vita moderna che creano un vortice in cui cose e persone si mescolano come fossero liquide; per Boccioni i corpi e gli oggetti possono penetrarsi, entrare l’uno nell’altro, e su questo tema realizza alcune sculture in legno e gesso.
Un altro luogo amato da Boccioni e dai futuristi è la stazione dei treni, altro simbolo del progresso. Lì l’artista può dipingere le ombre delle persone mischiate al vapore delle locomotive e catturare nel quadro gli stati d’animo di chi parte e di chi resta.
Per i futuristi anche i libri e la letteratura, come l’arte, devono liberarsi delle regole del passato che li rendono noiosi e antiquati. Marinetti inventa perciò un nuovo modo di scrivere e leggere i testi: nei suoi libri le parole non sono stampate ordinatamente, ma sono libere nella pagina (per questo si chiamano parolibere). Se la parola indica un’esplosione, come per esempio bum, questa dovrà essere scritta in grande e dal basso verso l’alto, per far immaginare al lettore l’improvviso fragore dello scoppio (proprio come si usa fare nei fumetti). Il modo in cui le parole sono scritte aiuta la fantasia e colpisce l’attenzione del lettore. Un suo amico futurista, Fortunato Depero, inventerà invece un libro rilegato con due bulloni, al posto dei tradizionali colla e filo (il libro bullonato).
Appartenente a una famiglia di piccola nobiltà e di modeste risorse economiche, Dante nacque a Firenze probabilmente alla fine di maggio del 1265 da Alighiero degli Alighieri e da Bella degli Abati. Trascorse la fanciullezza nel capoluogo toscano, dove apprese i primi rudimenti del latino; alla morte del padre, quando era circa diciassettenne, dovette occuparsi per qualche tempo degli affari familiari.
A vent’anni sposò Gemma Donati e dal matrimonio nacquero tre figli (Pietro, Jacopo e Antonia). Fra il 1286 e il 1287 soggiornò a Bologna; nel 1289 prese parte alla battaglia di Campaldino contro Arezzo, combattendo nella prima schiera dei cavalieri.
Intorno ai diciotto anni Dante manifestò la sua vocazione letteraria. A parte alcune prove minori, scrisse poesie amorose per una donna di nome Beatrice, identificabile con Bice di Folco Portinari, sposata a Simone de’ Bardi e morta nel 1290. Le dedicò la Vita nuova (1292-93 o 1294) nella quale raccolse le rime composte per lei, accompagnandole con il racconto in prosa delle diverse circostanze che le avevano ispirate.
Al centro del libro era Dante stesso, o meglio la storia del suo amore dal momento dell’innamoramento alla morte di Beatrice; un sentimento sopravvissuto alla scomparsa della donna e ricostruito nelle varie fasi in cui si era manifestato: dapprima come passione bruciante, poi come l’espressione di un animo pago di contemplare la bellezza e la virtù dell’amata, infine come testimonianza di una fedeltà sempre viva nel ricordo. Il poeta applicava in questo modo la lezione del «Dolce stil novo», come egli stesso definì la tendenza rappresentata dal bolognese Guido Guinizzelli oltre che dall’amico Guido Cavalcanti; una tendenza alla quale seppe dare un apporto personale, sollevando il suo amore a oggetto di un’esigenza di assoluta perfezione interiore.
Fra il 1295 e il 1304 Dante s’impegnò attivamente nella realtà politica di Firenze. Per qualche anno dopo la scomparsa di Beatrice aveva continuato a coltivare i suoi interessi esclusivamente letterari, lasciando emergere la sua propensione a sperimentare un linguaggio poetico anche diverso da quello della Vita nuova: come nelle canzoni cosiddette ‘pietrose’, ispirate da una donna dura e insensibile come la pietra; ritornò infine ai modi dello stil novo in alcuni componimenti d’argomento dottrinale e morale.
Nel 1295 il poeta sottostette all’obbligo, cui erano tenuti i nobili desiderosi di prendere parte alla vita pubblica, d’iscriversi a una corporazione, una specie di sindacato; scelse quella dei medici e degli speziali (cioè dei farmacisti) e poté così intraprendere la carriera politica. Erano per Firenze anni sconvolti dalla rivalità che divideva le fazioni dei Bianchi e dei Neri, sostenute rispettivamente dalla famiglia dei Cerchi e da quella dei Donati (v. Firenze). Dopo varie incombenze, il poeta fu eletto tra i priori (i rappresentanti delle corporazioni) per il bimestre 15 giugno-15 agosto 1300.
Nel 1301 le pesanti ingerenze di papa Bonifacio VIII nella politica fiorentina lo indussero a schierarsi con i Bianchi, superando così la posizione di neutralità mantenuta fino ad allora. Nello stesso anno fu inviato a Roma presso il pontefice con l’incarico di scongiurare il pericolo rappresentato per l’autonomia di Firenze da Carlo di Valois, legato papale col compito in apparenza di mettere pace fra le fazioni in lotta, in realtà di adoperarsi per la vittoria dei Neri, aprendo così la via alla totale soggezione della Toscana agli interessi della Chiesa. Carlo di Valois raggiungeva intanto il suo obiettivo. Richiamava in patria dall’esilio, cui erano stati condannati, i capi della parte nera e consegnava a loro il governo del Comune.
Sulla strada del ritorno da Roma, probabilmente a Siena, Dante apprese di essere stato condannato il 27 gennaio del 1302 all’esilio per due anni oltre che all’esclusione dagli uffici pubblici. Era accusato di «baratteria», e cioè di avere fatto commercio degli incarichi ricevuti dal Comune, con l’aggravante di essersi dimostrato ostile al papa e al suo rappresentante; non essendosi presentato a discolparsi, una successiva sentenza lo condannava a morte.
Ha inizio così la sua vita di fuoriuscito, che lo vedrà peregrinare di corte in corte nell’Italia settentrionale: da Forlì a Verona, ad Arezzo, poi nel Trevigiano e in Lunigiana; quindi si recò forse a Parigi. Nel 1304, dopo essere stato il rappresentante dei Bianchi in esilio, il poeta romperà definitivamente con loro, probabilmente deluso dall’esito disastroso di un’iniziativa militare (la battaglia della Lastra) che aveva energicamente avversata.
Nel 1310 la discesa in Italia dell’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo riaccese in lui la speranza di tornare a Firenze, ma la morte improvvisa di Arrigo nel 1313 gli spense ogni illusione; già alla metà di quell’anno (per qualcuno non prima del 1315) fu ospite a Verona, fino al 1318-20, di Cangrande della Scala e successivamente, a Ravenna, di Guido Novello da Polenta. Al ritorno da un’ambasceria a Venezia, il poeta morì tra il 13 e il 14 settembre del 1321.
Fra il 1303 e il 1304-07 scrisse due trattati, lasciandoli entrambi incompiuti: il primo in latino sulla lingua volgare (De vulgari eloquentia), il secondo in italiano (Convivio).
Nel De vulgari eloquentia, progettato in quattro libri ma eseguito solo in due, illustrò il suo ideale linguistico. Vi trattò dell’origine del linguaggio, dalla creazione di Adamo alla distruzione della torre di Babele; si soffermò poi a considerare gli idiomi derivati in particolare dal latino, e cioè il provenzale, il francese e l’italiano. A proposito di quest’ultimo, giungeva alla conclusione che nessuno dei quattordici dialetti che lo costituivano aveva le qualità proprie del volgare ‘illustre’. Occorreva a suo giudizio che fosse davvero la lingua comune della nostra penisola, in grado perciò di superare i particolarismi locali, alla luce di un ideale che si rivelava politico e nazionale. Dante ne illustrava i caratteri tecnici, sia dal punto di vista dei contenuti più convenienti (le armi, l’amore e la virtù) sia in relazione allo stile, che voleva il più alto, e alla forma metrica che riteneva preferibile, cioè la canzone.
Nel trattato linguistico Dante metteva a frutto la propria esperienza di poeta stilnovista; nel Convivio s’impegnò in un’opera enciclopedica e dottrinale. La concepì in quindici trattati, il primo d’introduzione agli altri, destinati a commentare quattordici canzoni. Ma anche il Convivio non fu condotto a termine e rimase interrotto al quarto trattato.
L’obiettivo principale era diffondere la cultura, invitando a un «banchetto» di sapienza (da cui il titolo dato all’opera: Convivio e dunque «riunione conviviale») coloro che ne fossero esclusi, impediti da occupazioni familiari o pubbliche. A tale fine Dante si preoccupò di usare la lingua più adatta a lettori semplici, il volgare e non il latino, che solo i dotti avrebbero potuto intendere. Ma accanto all’obiettivo principale, scopo dichiarato del Convivio era quello di difendere il poeta dalle accuse infamanti seguite alla condanna e all’esilio. Di qui la scelta di una materia di alto impegno filosofico, che mirava a smentire i nemici di Dante, dimostrando quale uomo egli fosse in realtà e quanto ingiustamente i fiorentini se ne fossero sbarazzati.
Dante si dedicò al suo capolavoro dal 1306-07 alla morte. Lo divise in tre parti o cantiche: Inferno, Purgatorio, Paradiso. Scritto in terzine ‒ il metro della poesia didascalica ‒ la Commedia è il racconto in prima persona di un viaggio nell’aldilà.
Dante, uscito dalla «selva oscura» del peccato, sarà guidato nell’Inferno e in gran parte del Purgatorio dal poeta latino Virgilio, nel Paradiso da Beatrice, la donna del suo amore giovanile. Il viaggio durerà circa una settimana e avrà inizio, così ci narra l’autore, nella notte del venerdì santo del 1300. Nel regno dei dannati, situato sotto Gerusalemme e immaginato in forma d’imbuto rovesciato, egli farà esperienza del male: incontrerà le anime dei peccatori e conoscerà la natura dei diversi peccati, dai meno gravi ai più gravi, distribuiti in nove cerchi o gironi.
Risalendo attraverso il corpo mostruoso di Lucifero dal centro della Terra agli antipodi di Gerusalemme, il viaggiatore oltremondano esplorerà il Purgatorio, concepito come un monte circondato dalle acque e sormontato dal Paradiso terrestre. Lì incontrerà gli spiriti ormai salvi, obbligati a purificarsi delle loro tendenze peccaminose per essere, dopo un’adeguata sosta, finalmente accolti tra i beati. Contrariamente ai dannati, perlopiù dispettosamente preoccupati di celare a Dante la propria identità, le anime del Purgatorio si fanno riconoscere volentieri, pregando il poeta affinché le ricordi nel mondo alle persone care, così da ottenerne le preghiere necessarie per abbreviare i tempi della loro penitenza. Il solo ardore di carità spinge i beati, nel Paradiso, ad accoglierlo gioiosamente e a renderlo partecipe della gloria eterna.
La scelta del titolo Commedia sembra alludere al suo contenuto: inizialmente, nell’Inferno, orribile e disgustoso, alla fine, nel Paradiso, piacevole e pacificato; senza escludere l’ulteriore allusione alla scelta del volgare, e cioè di una lingua familiare a differenza del latino, in grado perciò di essere compresa anche dalle «donnette». Ma nel corso degli anni, giunto alla terza cantica, Dante avvertì l’inadeguatezza di quel titolo ormai diffuso, e cercò una definizione dell’opera meglio conveniente alle sue ambizioni; usò allora quella di «poema sacro», ispirato direttamente da Dio.
Una folla di personaggi, mitici o storici, dell’antichità o del mondo moderno, anima il poema dantesco. A partire da Virgilio, simbolo della ragione umana, prescelto a rappresentare l’eredità del classicismo nella civiltà cristiana: come del resto l’altro poeta latino Stazio, incontrato alla sommità del Purgatorio. Dante si professa esplicitamente erede ma anche superatore della tradizione antica, in virtù della vera religione impostasi su quella pagana. Il suo stesso viaggio nell’Oltretomba, concepito come un privilegio concessogli da Dio, si oppone a quello di Ulisse, destinato a fallire tragicamente perché non sorretto dalla fede autentica.
Passato sotto la guida di Beatrice, simbolo della teologia o meglio della volontà che, conosciuto il male, s’indirizza al bene sommo della salvezza, il poeta dà fondo alle proprie certezze spirituali. Alla luce della sua concezione provvidenziale della storia umana disegna il modello di una società ordinata e giusta, condizione per il poeta di un mondo che sappia riprodurre i valori dell’armonia e della pace, in preparazione di quelli godibili per l’eternità nella gloria celeste. Questa preoccupazione attraversa l’intero poema.
Già nell’Inferno prende corpo il fermo rifiuto della realtà contemporanea: nella denuncia di Bonifacio VIII e dei papi moderni, dimentichi dei loro compiti, dediti al lusso e all’obiettivo di un potere soltanto mondano. La polemica antipapale continua nel Purgatorio e nel Paradiso estendendosi alla condanna di tutta la Chiesa del tempo; né viene risparmiata l’istituzione dell’Impero nella persona in particolare degli ultimi imperatori. Nascono così, interpreti degli ideali politici ed etici di Dante, i personaggi di Sordello, di Marco Lombardo, di Giustiniano, di san Pietro; mentre al trattato politico la Monarchia (composto in latino e collocabile fra il 1313 e il 1318) si collegano i numerosi episodi nei quali il poeta si fa campione della Chiesa militante, sostenitore di una verità in grado di riportare sulla Terra i principi irrinunciabili del vivere civile.
Alla memoria classica risale gran parte degli orridi personaggi delegati a custodire il regno del male: da Caronte a Minosse, a Flegias, al Minotauro, ai Centauri; alla stessa matrice culturale appartiene il diabolico Capaneo così come Catone, il severo guardiano del Purgatorio, simbolo della libertà dal peccato. Si susseguono figure storiche improntate al misticismo cristiano: da Manfredi di Svevia ai santi rievocati nel Paradiso, Francesco, Domenico, Pier Damiani. Ma fanno spicco anche i personaggi, positivi o negativi, costruiti o reinventati da Dante: Francesca da Rimini, Farinata degli Uberti, Pier della Vigna, Brunetto Latini, il conte Ugolino; e poi Pia dei Tolomei, Sapìa senese, Piccarda Donati, il trisavolo Cacciaguida. E mille altri, minori e minimi, sui quali il poeta proietta le sue passioni, la sua umanità, la sua sensibilità artistica.
Il Brasile è il più esteso e il più popoloso Stato dell’America Meridionale, confina con quasi tutti gli altri Stati del continente e si affaccia per circa 7.500 km sull’Oceano Atlantico. Proprio per le enormi dimensioni del suo territorio, morfologia, idrografia, clima, vegetazione e fauna sono grandemente diversificati. Molto estesa è la regione del bassopiano amazzonico, nella parte settentrionale del Brasile, percorso dal Rio delle Amazzoni con i suoi numerosi affluenti. Sempre a Nord vi è lo ‘scudo’ della Guyana, un altopiano di antichissima formazione. Nella parte centrale e meridionale si estendono altopiani molto vasti, che si rialzano nelle serras verso Sud, in prossimità della costa (Pico de Bandeira, 2.897 m).
Grazie anche al clima, spesso umido e piovoso, l’acqua rappresenta una risorsa importante. La salvaguardia dell’ambiente con le sue immense ricchezze costituisce uno dei principali problemi del Brasile. Il bacino amazzonico, per esempio, è coperto dalla foresta pluviale, con la sua straordinaria varietà di alberi, che però vengono abbattuti in modo sistematico.
Diversificata è pure la popolazione, che è multietnica. Dal 16° secolo in poi i Portoghesi si insediarono quasi esclusivamente sulle coste, fondandovi le maggiori città e portando la loro lingua e la religione cattolica. Da essi ha avuto origine gran parte della popolazione bianca, che costituisce più della metà degli abitanti; molti di essi discendono inoltre da emigrati provenienti dall’Italia e da altri paesi europei. Il restante 40% della popolazione è costituito da meticci (vale a dire i nati dall’incrocio di un genitore di origine caucasica con un genitore di altre origini, quali, per esempio, gli Indios o gli afroamericani), mentre gli originari abitanti del Brasile sono ridotti a non più di 50.000 persone. La popolazione nera, che discende dagli schiavi africani, rappresenta il 6%. La molteplicità etnica è una caratteristica importante della popolazione brasiliana, che conosce una larga tolleranza razziale, ma la popolazione di origine europea è quella che gode delle migliori condizioni di vita: ancora enormi, infatti, sono le disuguaglianze fra una ristretta classe di proprietari e imprenditori, e le grandi masse di poveri contadini e di sottoproletariato urbano.
L’incremento della popolazione è notevolissimo (nel 1950 i Brasiliani erano poco più di 50 milioni di abitanti mentre oggi superano i 200 milioni), con una distribuzione territoriale sbilanciata: l’interno è quasi spopolato, mentre lungo la fascia costiera si raggiungono densità molto elevate, in particolare in alcune grandi aree metropolitane. Recentemente si è avuto un aumento enorme della popolazione urbana, che ha superato l’80% del totale, provocando ulteriori gravissimi squilibri. La città più grande, con quasi 19 milioni di abitanti compresi i sobborghi, è San Paolo, che è anche il maggior centro industriale e commerciale del paese. Sempre sulla costa meridionale sorge la splendida città di Rio de Janeiro, con più di 11 milioni di abitanti. La capitale, Brasilia, si trova invece nell’interno.
Le risorse naturali sono estremamente varie: il clima consente produzioni di caffè, canna da zucchero, cacao e frutta tropicale, ma anche cereali e cotone; le risorse minerarie ‒ petrolio, bauxite, manganese, ferro, oro, diamanti ‒ sono imponenti e vengono lavorate anche dalle industrie locali: siderurgiche, metallurgiche, chimiche e meccaniche. Molte industrie sono legate a società multinazionali poco interessate a un più equilibrato sviluppo generale del paese, ma negli ultimi decenni l’economia nazionale ha fatto molti progressi.